Capitolo II
Il manoscritto misterioso
Lo zio Jack si prese un’ennesima, lunga pausa, come se non trovasse le parole per esprimere quanto gli era accaduto, mentre il suo viso diveniva, incredibilmente, ancora più pallido di quanto già non fosse. Sembrava quasi che, ora che era venuto il momento, avesse paura di parlare; mostrava una strana riluttanza, o meglio, un dissidio interiore, come se dentro di lui due impulsi, o addirittura due diverse persone, combattessero tra di loro. Aprì la bocca più volte, come per iniziare, ma poi la richiuse, come un uomo che tentasse senza successo di respirare sott’acqua. Poi alla fine, con uno sforzo che mi parve disumano, cominciò:
– Era la fine di giugno, del 1837; me lo ricordo perché era da poco salita al trono la regina Vittoria, che il diavolo se la porti. Forse neanche una settimana. Ero felice, per quanto lo possa essere un alcolizzato cronico mantenuto da una vecchia puttana. Il tempo non è mai stato gentiluomo con Josephine, ma come pretenderlo con la vita che ha fatto? Mi manca ancora così tanto… Piuttosto, tu dov’eri in quel periodo? Non ti ricordo a Londra, eri già partito?
– Sì, zio, ero già al servizio di quel pazzo di Fakwner, che si era messo in testa di fondare una nuova città, in Australia Meridionale; mai decisione fu più scellerata.
– Ah, ecco, mi sembrava… Beh, insomma, me la cavavo davvero bene in quei giorni, sicuro molto meglio di te, ma non ero completamente soddisfatto. Arrivato a quarantacinque anni, avevo la sensazione di non aver fatto nulla di buono nella vita, nulla che potesse lasciare un segno… Mi capisci? Forse non sei ancora troppo vecchio per provare quella sensazione, ma presto ti raggiungerà, di soppiatto, come un assassino nella notte.
– Non crediate zio, è già qui accanto a me, che mi alita sul collo!
– Mi dispiace, figliolo, ma almeno capisci di cosa parlo. Insomma, ero irrequieto e mi sembrava di avere poco tempo ancora per impegnarmi in una qualche impresa degna di un uomo, qualcosa che mi facesse ricordare in maniera minimamente benevola dopo la morte. O almeno era quello che mi raccontavo. In verità volevo finalmente fare qualcosa di importante, per dimostrare che non ero solo uno scroccone gaudente, che dentro di me c’era di più di quel che appariva. Non sapevo bene cosa, ma ero all’erta, si potrebbe dire, come un cacciatore in attesa di un cervo. E il cervo giunse, più grande di quanto potessi anche minimamente sperare. Il cervo si chiamava Annika ed era una bellissima fanciulla di origini svedesi. Ne ho viste di donne nella mia inutile vita, ma lei aveva qualcosa di indefinibile, di speciale. Non era bella, né aveva un fascino particolare; nondimeno, c’era in lei qualcosa che mi attraeva irresistibilmente, anche se non capivo cosa. Ovviamente mi guardai bene da far capire qualcosa a Josephine, che è sempre stata molto gelosa e vendicativa, ma ero talmente affascinato dalla ragazza che cominciai a seguirla.
– Lavorava al mercato di Whitechapel Road e nel tardo pomeriggio si avviava verso casa, portando un cestino ripieno di frutta quasi marcia. Le andavo dietro fino a casa, una catapecchia a Buck’s Row, ma non avevo il coraggio di fare altro. Abitava con un anziano signore, un nonno o un vecchio zio, che si diceva parlasse solo svedese e non uscisse mai di casa; la povera Annika faceva quella terribile vita solo per assisterlo, mentre io avrei potuto darle quello che davvero meritava.
– Una sera non ce la feci più: dovevo parlarle, spiegarle i miei sentimenti. Stava per imboccare la strada di casa, quando presi il coraggio a due mani e le afferrai una spalla: Annika si girò, lo sguardo spaventato, pronta a fuggire. Tentai subito di rassicurarla, ma non servì; cominciò a correre senza proferir parola. La inseguii: mi sembrava che un’incomprensione del genere fosse ancor più grave che se fossi stato scoperto a spiarla segretamente. La ragazza poteva pensare che la volessi importunare o peggio e chissà cosa poteva raccontare. Nel quartiere, come sai, mi conoscevano tutti e avevo una certa reputazione. Ma più di tutto mi spaventava ciò che avrebbe potuto fare Josephine se le fossero giunte alle orecchie certe storie: per me non sarebbe stata una passeggiata, ma ad Annika sarebbe certamente accaduto molto di peggio.
– Arrivai all’imboccatura di Buck’s Row proprio mentre la ragazza s’infilava in casa e si chiudeva bruscamente la porta alle spalle. Continuai a correre, e mi fermai davanti all’uscio. Non sapevo cosa fare; bussare non sarebbe servito. Così pensai che la cosa più semplice era intrufolarmi in casa e cercare di spiegarle che non aveva niente da temere. Probabilmente non ero molto lucido e a ripensarci ora non mi sembra proprio che fosse stata una grande idea; ma sul momento mi sembrò la cosa migliore da fare. Aprii la porticina in un baleno e mi introdussi in uno strettissimo atrio buio. L’unico altro accesso era rappresentato da una scaletta strettissima che saliva ripida al piano superiore. Scricchiolava terribilmente e ogni passo mi sembrava una tortura, ma alla fine arrivai su. Sull’angusto pianerottolo si aprivano due porte alquanto malridotte. Non avevo modo di capire quale delle due Annika avesse varcato, così mi affidai alla sorte e scelsi quella di sinistra. La porta non era chiusa a chiave e scivolai silenziosamente in un corridoio buio. C’era una pallida luce, qualche metro più in là, e mi feci strada. Mi avvicinai all’ingresso di una stanza, da cui arrivava un tremolante barlume di candela. Mi affacciai e compresi subito di aver fatto un terribile errore. Di fronte a me si trovava un vecchio alto e possente, seduto su una antiquata poltrona. Aveva lunghissimi capelli bianchi e una folta barba, e mi fissava con occhi spalancati e acquosi. D’istinto mi voltai per fuggire, ma inciampai in una piega di un vecchio tappeto e rovinai a terra. Ero stordito, ma la paura mi fece rialzare rapidamente, e mi ritrovai in piedi davanti al vecchio, che curiosamente non aveva proferito parola né aveva cambiato espressione. Aveva la bocca semiaperta da cui fuoriusciva un rivolo di bava e sembrava non sbattere mai le palpebre. Pareva stranamente rigido. Mi mossi lentamente e vidi che il suo sguardo non mi seguiva. A quel punto pensai che fosse morto, magari pochi istanti prima: povera Annika, quanto si sarebbe disperata quando lo avrebbe saputo, se davvero era il suo amato nonnino! Mi avvicinai maggiormente, per tentare di capire se fosse effettivamente spirato quando, all’improvviso, la sua nodosa mano scattò, rapida come un serpente, e mi afferrò il polso.
– Ho capito in quel momento di avere davvero un cuore forte, perché molti altri in una situazione simile avrebbero avuto un colpo apoplettico. D’altronde, se così non fosse non sarei sopravvissuto fino ad oggi, soprattutto pensando a quello che sarebbe successo più tardi. L’uomo mi fisso negli occhi, farfugliando qualcosa di incomprensibile con la sua bocca sdentata. Da giovane doveva essere stato forte, ma ora era solo un povero vecchio e riuscii facilmente a liberarmi. Stavo per girarmi e dileguarmi, quando all’improvviso il vecchio pronunciò qualcosa di comprensibile: «Aiuto…!», disse, «aiutami, per favore!». Mi girai nuovamente e lo guardai, tentando di capire. «Ti prego, per favore», ansimò, «aiutami. È Dio che ti ha mandato, lo so, proprio nel momento del bisogno! Tu sei un angelo, un angelo del Signore! Mandato da lui per rispondere alla mia suprema necessità! E giusto in tempo, giusto in tempo…». Le sue parole mi impressionarono e operarono su di me una sorta di incantesimo. Ogni timore mi abbandonò e una strana lucidità m’invase. Eccola, finalmente, l’impresa che mi attendeva, l’atto che avrebbe fatto pendere a mio favore la bilancia della vita; avrei aiutato quell’uomo, a tutti i costi! Parlai: «Buon uomo, ditemi di cosa avete bisogno e vi accontenterò, qualsiasi cosa sia!». Lui parve leggermente rinfrancato, e disse: «Grazie, Signore, grazie. Non morirò invano! Angelo mio, mio angelo, ascoltami, ho un messaggio importante da recapitare, a Dio, ma anche a mio cugino Olaf, che vive fuori Londra, a Billericay. Devi dirgli questo: le cose stanno peggiorando, e la fine è vicina. Loro stanno arrivando e nulla sarà più come prima». Si interruppe, scosso da un forte accesso di tosse, poi riprese, con affanno: «Ah, ma lui non ti crederà, no; quando attendi troppo a lungo qualcosa, nel momento in cui avviene veramente non ti sembrerà più possibile… C’è un solo modo per convincerlo della verità delle mie parole. Dagli questo». Infilò la mano nella sua giacca frusta e ne tirò fuori un pezzo di carta stropicciato, piegato in quattro. Era scuro, come se fosse stato macchiato dal contatto con il fuoco. «Il manoscritto», disse, «devi dargli il manoscritto! Questo, tieni; l’ho conservato per tutti questi anni. Quando lo vedrà capirà! Ti prego, ti prego! È l’unica speranza». Poi smise di parlare nuovamente, per un altro terribile attacco di tosse.
– All’improvviso, dall’altro lato del corridoio, giunse una voce: «Zio? Zio, stai bene? C’è qualcuno lì con te?». «Fuggi!», farfugliò l’uomo, quasi sibilando, «fuggi, finché sei in tempo! Se ti trova qui lei, siamo finiti! Non sai cosa può fare, ti attenderebbe un destino peggiore della morte! Un destino simile…». Sembrò calmarsi all’improvviso, poi concluse: «Simile al mio!». Poi tornò ad assumere la stessa espressione di quando lo avevo trovato, gli occhi fissi, la postura rigida. Nel frattempo rapidi passi si avvicinavano dal corridoio; nuovamente spaventato, non sapevo da dove fuggire, ma poi vidi la finestra. Eravamo al primo piano, non sarebbe stato un gran salto; riuscì a calarmi attraverso la malconcia grondaia, mentre sentivo la stanza riecheggiare della dolce voce di Annika: «Zio, cosa fai, zio? Stai bene? Ti ho portato la tua medicina…».
– Non sentii altro, perché stavo già fuggendo a gambe levate lungo Buck’s Row.
Per sapere cosa nasconde il misterioso manoscritto, non perdetevi, la prossima settimana, il terzo capitolo de “Lo strano caso de Le Cose”, intitolato “Ombre nella notte”!