La fede è riservata a ciò che non esiste.
(Aldo)
Carlo Ardizzi non aveva mai creduto in nulla. Men che meno nella musica. Per quello aveva pensato fosse una buona idea creare un gruppo musicale. Ci aveva messo qualche mese a trovare le persone giuste: il gonghista Buson, l’eliocornista Marat, l’arpista Richter, il baritono Arturo Magneti. Erano tutti soprannomi. Anche lui ne aveva uno: Carlo Ardizzi.
Il gruppo non aveva un nome. Suonava musica che non apparteneva a nessun genere. Non facevano concerti. Non volevano essere ascoltati.
Il 24 ottobre partirono in tour. Non fecero nessuna data. Durante il loro girovagare giunsero infine in Litenia. Era una serata nebbiosa. Entrarono in una tipica taverna liteniana e ordinarono della birra.
Richter trovò che il momento era adatto per esporre una sua vecchia teoria. Parlò a lungo del fatto che non riusciva a trovare un senso concreto nella sua vita e in ciò che facevano. Che doveva esserci qualcos’altro. Che, sebbene lui non ne avesse il coraggio, avrebbero dovuto credere nell’esistenza di un’altra realtà. Ardizzi emise un rutto sonoro. Magneti chiuse gli occhi e disse che lui ci credeva; ne era assolutamente certo. Da qualche parte esisteva un altro gruppo, i cui componenti avevano nomi diversi, suonavano altri strumenti, ma nell’essenza erano sempre loro.
Marat propose di mettere la cosa ai voti. Quattro a uno contro l’ipotesi di Magneti. Buson disse che sarebbe stato come credere nell’anti-materia. Perché non crederci? chiese Richter. Marat propose nuovamente di mettere la cosa ai voti. Quattro a uno contro la proposta di Richter. Come entità complessiva, non credevano nelle dimensioni parallele. E non credevano nell’anti-materia.
Uscirono dalla taverna perché quella sera non dovevano fare nessun concerto. Il giorno forse dopo sarebbero tornati a casa.