Le Cose, la psichedelia e Michelangelo

Quello de Le Cose è un progetto di arte totale. Lo dimostra questa immagine d’archivio, fortuitamente ritrovata in possesso di un anziano groupie in pensione, Osvaldo Arturioni. Rappresenta la bozza della copertina di un disco de Le Cose che doveva uscire nel 1966, intitolato Il chianti ed altre sostanze psicotrope.

In quel periodo il gruppo era impegnato in approfondite sperimentazioni legate all’alterazione della coscienza, con l’idea di convogliarle prima o poi in un nuovo progetto musicale, che doveva far da seguito al loro primo, vero successo commerciale, il 45 giri Godo in tua assenza, secondo al Cantagiro del 1965.

Il successo era stato travolgente, ma i membri del gruppo si sentivano sopraffatti da qualcosa di molto più grande di loro e stavano cercando disperatamente una nuova direzione. Fu Marelli a iniziare i membri del gruppo all’uso del Chianti classico, con l’obiettivo di allargare i confini della loro percezione. Non tutti cedettero immediatamente, ma nel giro di qualche mese la loro base operativa si spostò nel Pistoiese e la sperimentazione ebbe inizio.

Il processo durò 47 giorni, l’ultimo dei quali passato a registrare in fretta e furia qualcosa, per giustificare le spese sostenute dalla casa discografica. Dalla session furono tratti degli acetati, che la produzione inviò ad alcuni quotati giornalisti musicali.

Solo uno di essi, Calogero Carcassi, critico per “L’eco di Barletta”, si degnò di inviare una risposta, che recitava:

L’ascolto del disco ha dato per contrasto dignità estetica ai gorgoglii dello stomaco di mio nonno Ildefonso, sia pace all’anima sua. Un disco contenente questa roba non avrebbe valore artistico neanche se avesse per copertina un dipinto originale di Michelangelo, perché l’apporto positivo aggiunto sarebbe comunque più che annullato dall’abisso qui rappresentato.

L’etichetta discografica aveva nel frattempo inviato in stampa il disco, con in copertina una foto del gruppo scattata e rielaborata graficamente (con tecniche all’epoca assolutamente all’avanguardia) dal celebre pubblicitario Remo Cortesi, che affermò di essersi “ispirato al Monte Rushmore”. La stampa fu immediatamente bloccata e del disco non si seppe più nulla. Il gruppo si riprese dalla sbandata con il discreto LP Anime impastate, uscito nel ’67, e la loro storia continuò senza che del disco precedente si sapesse più nulla.

Nel 2003 però, a due anni dalla morte del Carcassi, venne trovata nel suo appartamento una scatola da scarpe contenente una lunga lettera, vergata dallo stesso pochi mesi prima di spirare. In essa il celebre giornalista tracciava un dettagliato bilancio della sua vita, chiudendo con queste parole:

Ho un unico rimpianto: non aver saputo riconoscere, almeno in un’occasione, il genio.

Quando l’anziana vedova venne interrogata sulla questione, affermò di non sapere a cosa il marito facesse riferimento.

Un indizio è però venuto, negli anni successivi, da un collega di Carcassi, Benito Trivani, che negli anni Settanta lavorò per alcuni anni nella redazione de “L’eco di Barletta”:

Parlava spesso di un suo grande errore di valutazione, compiuto negli anni Sessanta. Diceva che se lo avesse evitato, le conseguenze sulla storia della musica sarebbero state immense.

Un altro collega, Arturo Coppoletti, ha confermato:

Era una sua ossessione. Chiunque lo abbia frequentato professionalmente in quegli anni ricorda alcune sue affermazioni costanti, del tipo: “La psichedelia è un’invenzione italiana”, oppure: “I Beatles avrebbero probabilmente scritto una canzone intitolata Caleidoscope Hideouts Inside A Nervous Typical Illness”, e altre stramberie simili. Non ho mai capito a cosa si riferisse.

Davvero un segreto ben custodito. Almeno fino ad oggi.

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