Nel gennaio del 1897 stavo attraversando un periodo particolarmente felice. Gli anni di studio speso nella decifrazione di antiche lingue ormai dimenticate stavano per dare finalmente il loro frutto. Il 17 arrivò una lettera di mio zio, professore di Linguistica Indoiranica all’università del Rhode Island, in cui annunciava che la proposta di pubblicazione del mio ultimo saggio sull’evoluzione delle affricate in corideo era stata accettata. E grazie a quella pubblicazione, c’erano buone possibilità di ottenere l’affidamento della cattedra di Fonologia egea presso l’università di Boston. Ero al settimo cielo: non avevo ancora idea di ciò che mi aspettava di lì a poche settimane.
Mio zio aggiungeva che ero atteso per un colloquio di lì a dieci giorni. C’era abbastanza tempo per poter fare tappa, con una piccola deviazione, alla Biblioteca Pubblica di Worchester, dove avrei consultato un manoscritto islandese che poteva contenere informazioni utili al proseguimento della mia ricerca. Ero molto eccitato: mi sembrava che nulla si potesse oramai frapporre tra me e il coronamento dei miei sogni accademici.
Il 19 salii su una diligenza Wells Fargo diretta a Worchester. Avrei fatto tappa lì per un paio di giorni, poi avrei preso la prima diligenza utile per Kingston. Il viaggio fu tranquillo, anche se un fatto lievemente inquietante avrebbe dovuto mettermi sull’avviso di ciò che stava per accadere. Sulla diligenza viaggiava un uomo dall’aspetto insolito ammantato in un lungo pastrano nero, il viso in buona parte coperto dall’esteso bavero. Non mi rivolse parola per tutto il viaggio, ma ogni tanto sembrava mormorare qualcosa di incomprensibile a denti stretti. Ad un tratto, mi parve di cogliere una parola, ovvero il termine ‘kwashjqrah”, che in medio corideo ha contemporaneamente il significato di “demone” e di “birra di frumento fermentata al sole di mezzogiorno di metà novembre”. In un primo momento pensai che la mia mente mi avesse giocato un brutto scherzo, ma quando l’uomo dopo una decina di minuti pronuncio la stessa, identica parola non ebbi più dubbi: possedeva almeno qualche nozione di coridese.
Ora, nel mondo esistono solo due specialisti di corideo (o antico coridese); uno sono io e l’altro è Wilhelm von Plüschow, linguista dilettante oltre che fotografo pomerano. Potete dunque immaginare la mia sorpresa e la mia curiosità di fronte ad uno sconosciuto incontrato in circostanze completamente casuali che mostrava di conoscere tale lingua. Mi ripromisi di interrogarlo in proposito alla successiva sosta, ma con mio sommo rammarico mi trovai impossibilitato a farlo. L’uomo era infatti sceso per primo dalla diligenza per allontanarsi velocemente nel buio della notte e quando venne il momento di ripartire non era in vista. Il conducente attese e chiamò per un certo tempo, ma alla fine fu costretto a rinunciare e a ripartire, per evitare di perdere la prevista coincidenza con la diligenza per Pawtucket.
Ripartii convinto di aver perso per sempre l’unica occasione di avere un contatto diretto con un collega studioso appassionato della stessa, rara lingua morta su cui lavoravo da anni, quando l’occhio mi cadde sul sedile che l’uomo aveva occupato fino a poco prima. Vidi un foglietto di carta ingiallita, accuratamente piegato in quattro parti. Mi guardai intorno e, quando mi fui assicurato di non esser visto da nessuno, lo afferrai e lo infilai velocemente in tasca.
Giunto finalmente a Worchester, mi appartai all’angolo tra la Green e Madison e, sotto la luce di un lampione, aprii con apprensione il foglio. Sopra era riportata una frase, in un alfabeto che non mi era noto. Per fortuna alla Biblioteca Pubblica dove l’indomani mi sarei recato conoscevo una persona che forse avrebbe potuto aiutarmi: l’archivista capo, mio conoscente di vecchia data, specialista in alfabeti sconosciuti. Bartolhomeus Gasthuis, meglio noto ai suoi intimi amici come il Barone.
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