Iniziai a leggere Il giardino dei ciliegi il 21 agosto 1997, una cupa giornata estiva e senza pioggia. Lessi la prima pagina in un intero pomeriggio, ma non a causa di punte dislessiche o per appannamenti continui della vista causati dall’abuso di droghe naturali, bensì perché squillava continuamente il telefono. Arrivato a mezza sera conclusi la pagina 3, e mi accadde qualcosa di tutt’altro che strano. Non so se a voi è mai capitato, ma a me avviene sempre di provare l’irrefrenabile desiderio, quando inizio un romanzo, di leggere l’ultima frase, solo l’ultima, non l’intera conclusione; frase che solo raramente, e qualche volta in romanzi dozzinali, rivela qualcosa sulla conclusione della storia, mentre normalmente offre come una premonizione, una scommessa su come arrivarci. Come se noi potessimo sentire una frase che pronunceremo fra dieci anni da questo momento: può essere assolutamente priva di spessore (“due cucchiaini, grazie”), ambigua (“mettimene due!”), enigmatica o senza senso (“tira la corda del tempo”). Non la ricollegheremmo a noi, al nostro inizio, al punto di partenza, anche perché sarebbe pronunciata da un altro, non riconosceremmo la nostra voce. Dunque leggere l’ultima frase non è nient’altro che un gradito strappo alla regola, un atto che ci fornisce un piccolo esempio di quadridimensionalità, sebbene misero. L’ultima frase del romanzo era “Come il sangue e la ciliegia” . Beh, forse c’era da aspettarselo. Ci rimasi un po’ male. La prima pagina mi aveva promesso qualcosa. Come stavo dicendo, se noi potessimo vedere un’immagine, solo un’immagine del futuro, forse rimarremmo delusi. Con molta probabilità non sarebbe nulla di cruciale, una visione qualunque, che potrebbe appartenere all’oggi. Forse con solo qualcosa di impercettibilmente diverso.
Sarebbe forse ora di dire che cosa c’era scritto nella prima pagina del romanzo. Mi piacerebbe, ma temo sia impossibile. La lettura di questo libro rappresenta una storia a sé, forse la storia vera di quel libro, lunga e complicata, e racconta di come avvenne che quel libro ora io non l’abbia più, se non in frammenti, che ho ripescato in una lunga ricerca personale, all’inseguimento di quel periodo funesto e incredibile e anch’esso disperso, e che posso ricostruire solo associando gli avvenimenti ai passi, ai capitoli letti in quei giorni. Varie volte però ho ricostruito mentalmente quella prima pagina, e anche le successive, fino alla fatidica pagina 17, dove inizia il primo dei frammenti che ho ritrovato. La mia memoria ne ha dato varie versioni, fino ad arrivare, grazie anche al contributo di Vera (l’unica altra persona che io conosca ad aver letto quel libro) ad una stesura che definirei ufficiale, autorizzata, se non altro perché è qualcosa di più del parto di un’unica stravolta memoria, ma deriva dagli elementi ricorrenti estratti dalle varie versioni cresciute nella mia mente, oltre che da un recente sogno di Vera in cui lei rileggeva il romanzo, e da cui sono riaffiorate varie frasi forse quasi autentiche, come ad esempio il determinante incipit.
La vecchia sembrava un buio animale cadente. Aveva il viso ingrugnato di un pit-bull sorridente, che trasuda ostilità. Avessi avuto un taccuino, un lapis anche consumato, sarebbe rimasta almeno una traccia, minima, imprecisa, di quel viso, di quell’essere che ebbe, dopo e con la sua morte, un ruolo determinante nella mia vita. Il giorno che arrivai, stanco e affamato, a New Paris, lei era lì, e sembrava mi aspettasse da tempo, come se avesse fatto la guardia a quel posto per un’eternità, e vedesse giungere finalmente il sostituto. Più che di un pit-bull avevo l’aspetto di un magro bastardino dal pelo chiazzato e indefinito, ma evidentemente lei non stava a badare a queste sottigliezze. Le bastava che fossi un cane.
Era proprio un pit-bull, e non invece un bull-dog? Si trattava di New Paris e non di New Glasgow? Non lo so, l’unica cosa di cui sono effettivamente sicuro è l’incipit, aperto da uno sproporzionato e assurdo capolettera. Effettivamente però non si tratta dell’intera prima pagina. Ma qui si pone una significativa cesura. Perché in quel fatidico giorno dell’agosto del ‘97, fu proprio quando arrivai a quel punto che squillò per la prima volta il telefono. O meglio, a metà dell’ultima frase, che finii di leggere senza averla effettivamente letta, già concentrato sul mio nuovo sconquasso emotivo.
Non so come è per gli altri, ma a me lo squillo del telefono ha sempre spaventato. Si tratta di una cosa irrazionale, completamente fuori dal mio controllo, fatto sta che ogni volta che ricevo una telefonata sobbalzo come un bambino davanti al suo primo film dell’orrore; sono giunto a pensare che sia un retaggio della mia adolescenza, quando effettivamente credevo che molto della mia vita dipendesse da ciò che arrivava attraverso la cornetta. Dopo lunghe attese, un qualsiasi innocente squillo si copriva di significati angoscianti, di speranze destinate a disfarsi, concentrate in discussioni drammaticamente brevi o drammaticamente lunghe.
Diciamo che il possibile è più o meno infinito. O meglio, dal nostro punto di vista, lo è certamente. Spesso è difficile scegliere, o agire, solo per la sopraffazione che subiamo dal possibile. La vita è una possibilità a cui spesso non facciamo caso. Si attua, perciò smette di essere potenza. La paura di scrivere sta proprio nella paura di scegliere in mezzo all’infinito delle possibilità. Il piacere di leggere sta nel fatto di trovare la scelta già attuata. Lasciarci accompagnare in un percorso che già conoscevamo, ma non avevamo il coraggio di esprimere Questo significò per me Il giardino. Vi era contenuto tutto ciò che non ero stato in grado di scegliere. Perciò era ciò che ero, tutto ciò che avevo ancora dentro di me. E la telefonata era l’irruzione del reale, una scelta imposta, dittatoriale, che interrompeva il continuum del potenziale.
Alzai la cornetta. Se c’è una cosa che mi ricorda lo scorrere del tempo, è ascoltare un archetto che rimbalza ripetutamente sulla corda tesa di un violino o di un violoncello. Può sembrare una cosa non esattamente usuale, ma provare per credere. Forse però sto già citando il libro, sto già perdendo di vista il mio racconto, e così presto! Sono così intriso da quell’altra narrazione da confonderla fin d’ora con la mia, quella esterna alle pagine. Corro troppo. Piano.
Era Olga, la mia fidanzata. So che Olga non dovrebbe essere il nome di una fidanzata, ma quello era il suo. Forse fu proprio in quel momento che si iniziò il processo del nostro allontanamento, forse fu fin dall’inizio. Tant’è che non gliela perdonai. Le risposi in tono scocciato, Ciao, che vuoi? Sei brusco! Non sono brusco, è che non sopporto prendermi certi spaventi! Sai com’è, dovresti avvertirmi prima di telefonare. Certo, e come dovrei fare? Passa da me, scrivimi una lettera, come vuoi, ma non telefonarmi in questo modo, così all’improvviso, e con uno squillo così autoritario, non sono al tuo servizio! Tu sei un pazzo furioso, amore. Già. Silenzio. Ecco un’altra cosa che non sopporto, il silenzio al telefono. È un silenzio che non significa nulla. Un silenzio che è solo un vuoto. Va bene, senti, passo lì alle otto. Non ritardare, o forse sarò già uscita, vedi quello che puoi fare. Io tardare? non mi conosci.
Mi ha sempre conosciuto meglio di quanto non avessi voglia di accettare. Mi dava fastidio essere così prevedibile solo a causa della mia pigrizia. Era davvero una caduta di stile. Eppure ero fatto così, allora. E adesso? Forse non più, e non è un caso. Attaccai, irritato per la sua lineare preveggenza priva di sforzo. Tornai a sedermi sul letto, e avevo perso il segno. Il libro era aperto a pagina 43, mi mormorava nell’orecchio quelle parole assurde… È sempre stancante ritrovare il segno, anche se sei alla prima pagina.
… Le bastava che fossi un cane.
Mi accolse con la noncuranza di chi è abituato a far qualcosa per gli altri come una routine, mi fece sedere e, sebbene fossi stanco, mi sembrò una costrizione. Era una questione di atteggiamento. Senza parlare sembrò volermi accudire come un bambino, ma con i gesti bruschi di una suora vecchia e arrabbiata. Mi condusse dentro una grande cucina grigia, se avessi avuto un olfatto appena decente avrei dovuto sentire un forte odore di cavolo. Mi guardava come si guarda mangiare un animale da fatica, o un idiota, con un’ira coperta da falsa pazienza. Come se la necessità ci costringesse a fare cose che non vorremmo, come se così si giustificasse lo spettacolo terribile del bisogno fisiologico.
So che ora mi manderete al diavolo. Interrompo ancora il racconto. Il problema è che, a differenza di un romanzo, la vita è una cosa frammentaria. È fatta di piccoli blocchi di senso privi di continuità. È per questo che la continuità ci piace tanto, i lunghi cicli di racconti consequenziali, le telenovelas… c’è un filo, una linea che racchiude tutto, un percorso preciso. Amiamo evolverci, gustare il progresso, i numeri che crescono. Sta tutto lì, nel nostro bisogno d’accumulo. Soldi, matrimoni, figli e nipoti, capelli, case, chilometri, punti. L’urina.
Lo ammetto, qui ho interrotto per andare a pisciare. Ho una tendenza a rimandare, poi c’è il solito accumulo, appunto, e probabilmente anche l’ultima frase ebbe il suo peso, è un collegamento strano, come se ciò che è fisiologico, grazie al gusto ipocrita per gli eufemismi, oramai si possa espletare solo nel cesso. Questo penso sappiate com’è, ti piazzi lì davanti, te lo tieni in mano e aspetti. Ci vuole un po’, quando si è improvvisamente davanti a ciò che si è a lungo desiderato è naturale esitare. Poi arriva un lento brivido dalla nostra reale interiorità, e nel momento del passaggio tutto si esplica in un brevissimo orgasmo ridotto, uno strano piacere di purificazione, che può essere accompagnato da mugolii compiaciuti, con gli occhi socchiusi. È così bello che non si capisce perché si debba nasconderlo, farlo da soli e non condividerlo, non so, con gli amici, con la propria innamorata, un momento per stare insieme, vivere la fisicità, la natura. Discorso analogo si dovrebbe fare anche per il piacere della defecazione, anzi forse a maggior ragione, non era un semplice rivolgimento, quello di Buñuel, forse era una proposta. Effettivamente non dovrebbe essere più osceno il momento in cui introduciamo in noi stessi sostanze vegetali ed animali unite in un orribile miscuglio, bruciate, grondanti, unte, piuttosto che il momento in cui ce ne liberiamo, purifichiamo il nostro corpo da ogni impurità, in quella che non indugerei a definire una vera ascesi intestinale? Sapevo di potere ora godere al meglio di qualsiasi attività intellettuale, libero da me stesso, di poter seguire con totale dedizione qualsiasi rigida disciplina spirituale, almeno fino al prossimo ‘bisogno fisiologico’.
Io feci perfettamente la mia parte, sorbendo la zuppa densa con inevitabili gorgoglii, e rimanendo in silenzio. La donna commentò ad alta voce il mio aspetto pietoso, come se fosse convinta che io non potessi capire nulla delle sue parole, o come se non gliene importasse. Stavo finendo le ultime cucchiaiate, quando mi tolse improvvisamente il piatto da sotto il naso, e lo ripose in un massiccio lavello in pietra. Quindi si avvicinò alla porta, aspettando che io la seguissi. Mi condusse attraverso corridoi illuminati da fiochi neon lampeggianti, in una spoglia stanza priva di finestre, che aveva come solo arredamento una branda in ferro con sopra uno stretto materasso dal colore indefinibile. Prima di chiudersi la porta alle spalle, e di lasciarmi nel buio più completo, mi gettò una ruvida coperta addosso, e mi disse solo: «Domani». Fu la mia prima notte al Manicomio Criminale O. Welles.
Alzai gli occhi dal libro, ed ebbi il tempo per riflettere su queste ultime frasi, prima che squillasse di nuovo il telefono. Sebbene cominciassi ad essere stanco delle continue intrusioni della mia vita nella storia che stavo con partecipazione vivendo, diedi un’ulteriore possibilità al reale e andai a rispondere. Sì?, Pronto, dottor Orlandi? Ebbi un attimo di esitazione. Poi ricordai che effettivamente, qualche anno prima, mi ero laureato. Proprio così, e se qualcuno ha interesse a saperlo, sono dottore in Lettere, specializzato in Filologia Patristica. Già, e non mi vergogno di dirlo, assolutamente. Come non mi vergogno di dire che sono assolutamente ateo. Mi sembra già di vedere qualcuno con la faccia a punto interrogativo come per dire: che centra? Centra, ma non è certo questo il momento di spiegare cosa sia la Filologia Patristica. Sì,… sono io, chi è? Buonasera, la chiamiamo per un sondaggio. La prima domanda è questa: dove pensa che si dovrebbe svolgere il Giubileo del 2025? Mi sentii subito messo alla prova, o meglio, incredibilmente preso in giro. Doveva certamente trattarsi di uno scherzo di qualche vecchio compagno di corso. Beh, sarebbe interessante se potesse svolgersi ad Avignone. Bene…, dunque vediamo, seconda domanda: pensa che l’attuale papa Ludovico Pio VIII possa giungere a celebrare il prossimo giubileo? Certo; non bisogna assolutamente sottovalutare lo sviluppo delle nuove tecnologie criogeniche. Seconda palla in buca, mi stavo stupendo di me stesso! Ok, bene, terza domanda: quando crede che avverrà il secondo avvento? Entro le 22 di oggi, in prima serata. Grazie molte, le sue risposte sono state molto preziose. Pubblicheremo i risultati del sondaggio sul primo numero di “Chiesa Ufologica”, in edicola subito dopo la fondazione del Quinto impero. Molto divertente. In effetti, non era la prima volta che subivo uno scherzo del genere. Anzi, era talmente frequente, che cominciavo a pensare che fosse più economico credere che non si trattasse assolutamente di uno scherzo, ma di gente realmente convinta. È molto più facile trovare nel mondo la demenza piuttosto che demenzialità.
La notte furono grida e sogni disperati, sudore di un pauroso temporale, metereologia schizoide di un piccolo antro, l’orchestra della follia in contrappunto con una stravolta ragione svuotata di senso. Al mattino non filtrò alcuna luce, ma essa si riversò su di me tutta all’improvviso. Il vecchio della montagna entrò nella stanza con occhi profondi e disse solenne: Non aspettarti niente di buono! Siamo tutti pazzi e privi di custodia! Se non ci fossi tu, ora… Queste affermazioni mi agitarono e mi fecero svegliare in fretta. Percorsi i corridoi e tutto era perfetto, sudicio e inclinato, le pareti instabili. Oppure ero io? Giunsi in cucina. C’era un ordine incredibile, le pentole allineate, alcuni viveri non deperibili allineati sul tavolo, tutto disposto come a mostrarmi un modello da imitare, qualcosa da preservare. Non so dire quando è che capii. Che ero stato assegnato ad un compito. Ero il tappo del vaso di Pandora.
Lo so bene che la purezza non esiste. Me lo confermava pienamente la limpida irrealtà di quanto stavo leggendo. Arrivando oramai vicino alla fine della prima pagina, e nei pressi delle sette, sette e mezza di sera, compresi all’improvviso la strana costrizione che mi stava cucendo addosso quel libro; la magia della fascinazione, una curiosità completamente idiota e non necessaria verso qualcosa di completamente irreale. Il desiderio di continuare a leggere si spostò all’improvviso in cima ai miei pensieri, con una strana vergogna derivante dal voler posporre la mia storia a quella inventata da un altro. Però io sapevo di non avere una vera storia, né un inizio, né uno sviluppo, né una fine. Come si potrebbero racchiudere tutte le cazzate della vita quotidiana in una serie di righe ordinate? Si può fare solo con le esperienze straordinarie. Eppure mi preparai ad uscire. Ero ovviamente in ritardo. Portai il libro con me, nella speranza di riuscire a rubare qualche minuto a quanto mi accadeva, chiudermi per un po’ in un bagno, aspettare qualcuno o qualcosa per qualche tempo, magari sfogliare di nascosto le pagine da sotto un tavolo, fingendo una conversazione. In realtà, mi bastò salire in macchina per ricominciare, ma non voglio anticipare troppo.
D’altronde, non c’è altro da dire sulla lettura della prima pagina, se non che era finita, e che non vedevo l’ora di leggere la seconda.