Eppure c’era un pensiero che continuava a rodermi la mente, crepitante. Avevo sognato di baciarle il collo, di carezzarla. Lei mi mostrava una lettera che non le avevo mai scritto, mi chiedeva di spiegargliene il significato. Mi chiedeva di capirmi. E io mi agitavo, dormendo, parlavo. Lei mi sentiva, mi ascoltava; non era lì.
Ricostruisco: ora è lì davanti a me, e mi guarda con le lacrime che le scendono dagli occhi. Piango anch’io. E prima non potevamo neanche sentirci per telefono. E prima ancora, eravamo sempre insieme. E prima ancora, io non sapevo proprio chi lei fosse, e nemmeno esistevo, probabilmente. Fammi sognare.
Come si sprofondavano i nostri occhi. Come si compenetravano, si possedevano. Come eravamo buffi in quella affannosa ricerca di una qualsiasi fusione corporale. Le passavo le dita fra i capelli, mi si impigliavano nei suoi nodi che scioglievo, con la forza; probabilmente le facevo male. Sorrideva per lo sforzo. Ci guardavamo, ci scorgevamo a malapena nel buio. Lanciavamo qualche gemito insicuro, per poi sprofondarci di nuovo. L’estasi e la morte.
Poi ci potevamo baciare ancora, e il tempo era passato veloce, giorni, settimane. Qual è il fato di felicità?
Passeggiammo per quel corridoio per mille volte, teatro delle nostre tragedie. Seduti su quel davanzale, continuamente stretti, e avevamo sempre fame. Ma che storia è questa. Quella piccola sala, e le sedie, e il rincorrerci su per la scala. Alla fine ci ritrovavamo sempre. Alla fine ti ho ripresa. Ti ho ripresa e ti ho persa.
Sono scivolato sul pavimento. Ho chiuso la porta dietro di me. Poi ho sceso le scale. Che bella serata, fresca. Io cammino, ciao, ciao, cammino. Torno a casa. Ciao, a presto. Non prendere freddo. Stai bene.
Cazzo che gelo, per strada.